Non è luminosa la strada che ci si prospetta davanti: il regresso sembra aver preso posto al progresso, chi parla di futuro è stato sostituito da chi si lega al passato, chi dispensa globalismo adesso deve subire trombe avverse che gli ritorcono contro la sua stessa musica. Queste sono solo conseguenze politiche di un declino che, invece, coinvolge tutta la società: la crisi della fiducia e delle competenze.
Dopo decadi di abuso della parola “meritocrazia”, questa è stata spogliata di tutte le sue sfaccettature, per divenire una gruccia su cui appendere la giacca del qualunquismo: “Eh ma se ci fosse più meritocrazia qui… La meritocrazia in Italia non esiste…” ecc. ecc. Secondo molti, la meritocrazia è l’antagonista della corruzione: il potere a chi lo merita, e non a chi lo compra.
Non è proprio così: meritocrazia, etimologicamente, significa esattamente “il potere del merito”, che non è però il potere dei meritevoli, né tantomeno è contrapposto semanticamente a chi il potere già lo possiede, lo gestisce e lo dispensa a suo piacere. In questo caso, il merito è inteso come un premio al sudore, una promessa di redenzione dopo una vita di stenti (simile al concetto Cristiano, specialmente Luterano, di vita dopo la morte). Al contrario, il merito è l’oggetto premiato (e non il premio), così come è il merito a essere ricompensato, e non il meritevole in sé. Il meritevole perde il merito quando viene scavalcato da chi ne ha più di lui, e quindi, in una società meritocratica, il succedersi di classi dirigenti dovrebbe essere costante. In Italia, invece, il merito non viene considerato come riconoscimento di sforzi o competenze, ma piuttosto come un premio alla persona per quelle azioni puntuali che, una volta presentate come geniali, vere e imperiture, gli attribuiscono un merito di regale durata.
Ma chi decide l’esistenza, e l’entità, del merito? Nelle aziende, solitamente la responsabilità viene delegata al dirigente, al capo, all’ufficio HR. Nella sfera pubblica, queste figure sono rimpiazzate da giudici di competenza, da capi politici ed amministrativi o, più raramente, dal popolo stesso. A queste persone tocca un compito divino di valutazione delle azioni, secondo la dicotomia del bene e del male, ma non solo: è bene che la ricompensa sia bilanciata al bene (o male) portato dall’azione in questione. Questo compito di sacra imparzialità e integro bilanciamento è spesso impugnato da uomini e donne di umana fattezza, e quindi di debole caratura morale. Questo è il più grosso problema della meritocrazia: pretende un giudizio imparziale di uomini su altri uomini, definendo chi fa bene e chi no, assumendosi quindi una responsabilità morale che non è insita nell’uomo come individuo, ma nell’umanità in toto. Ciò nonostante, si richiede alla parte di giudicare il tutto, secondo ovvia parzialità, e raramente questa riesce a essere obbiettiva per capacità fisiche e intellettuali, o debolezze morali. A ciò consegue il peggior male della meritocrazia, che è il riconoscimento degli immeritevoli, esclusi dal potere per natura, volontà o possibilità, e costretti a vivere in un inferno terrestre, in balia del potere dei meritevoli.
Bisogna quindi stare attenti a osannare la meritocrazia, in quanto potere del merito, perché intrinsecamente divisiva. Il merito, inteso da Young come somma di intelligenza “congenita” e impegno, va riconosciuto secondo meritorietà: è moralmente accettato che chi merita di più abbia di più (secondo un famoso concetto Marxista, ma con radici che corrono sino ai tempi di Cristo), senza però implicare che i primi si arroghino il diritto di scrivere le regole del gioco, economico o politico, in modo da potersene successivamente avvantaggiare. La società deve avere una organizzazione secondo meritorietà, ovvero criterio del merito, e non secondo meritocrazia, cioè potere del merito: quest’ultimo, infatti, ha la tendenza classica di ogni potere ad arroccarsi e giustificarsi, in modo da sopravvivere il più lungo possibile, creando di fatto una élite autoreferenziale.
Lo stagnamento del potere nelle mani di pochi meritevoli suscita la rabbia degli esclusi. La meritocrazia funzionerebbe solo in uno Stato di ideale fluidità manageriale, in cui i capi si succedono senza interessi di potere, senza brama di governare. Nel mondo di oggi, dopo decadi di ispirante “meritocrazia” mai ottenuta a pieno, gli esclusi non hanno solo smesso di lavorare per il merito, ma hanno cominciato a criticare tutte le regole su cui si basa il giudizio del merito stesso. A seguito di ripetute ingiustizie, infatti, i costumi tendono ad accettare le ingiustizie come giustizie e viceversa, capovolgendo il quadro dei valori e quindi l’essenza della società. Se chi viene promosso è chi ruba, tutti rubano per essere promossi; se l’omertà vince sul coraggio, gli omertosi avranno più potere dei coraggiosi.
Ma come può un omertoso essere onestamente potente? Tutte le contraddizioni nate da una distorta meritocrazia perpetrata nel tempo, in cui il merito era personale e quindi riconosciuto secondo favori e regole private, e non secondo, ad esempio, il concetto di bene pubblico o di impresa eroica/patriottica, si accumulano una sull’altra, preparandosi a straripare. La fiducia nei confronti di chi doveva giudicare viene a mancare, siccome chi viene promosso non è mai chi lo merita oggettivamente, ma soggettivamente: prendere i figli del capo da scuola vale di più di un buon lavoro alla scrivania, e così anche un complimento alla moglie, una bottiglia di vino, o una mazzetta. Il concetto di competenza va dissolvendosi, diventando pura commissione, in quanto chi occupa il posto di potere non lo ha meritato per conoscenza dimostrata, ma per servizio reso, e quindi non gli compete: non solo la macchina funziona male, in quanto ha ingranaggi nei posti sbagliati, ma si presta a essere pessimo esempio di meritocrazia anche per le altre macchine a lei vicine che, a causa del peggior virus esistente al mondo chiamato corruzione, si infettano e inceppano a loro volta.
Le persone non si fidano, e le istituzioni non funzionano: il sistema Stato è così un malato cronico, in cui le poche eccellenze vengono spesso oscurate dai enormi cancri sistematici. Chi detiene la fiducia, non merita la competenza; chi si fida del merito, non ottiene la competenza; chi ha competenza resta quindi, infine, senza fiducia e senza merito. E chi riesce a competere senza la fiducia di superiori, pari e sottoposti? E chi riesce a ottenere fiducia senza apparente merito, o peggio, riconoscendosi alcun merito e perdendo la fiducia in sé? In poche parole, chi riesce a lavorare efficientemente, se isolato e incompetente?
La fiducia negli uomini e tra gli uomini, da non confondere con la Fede, è il collante delle società moderne e il carburante del progresso. Dai tempi in cui si tramandavano leggi e leggende, in forma orale prima e scritta poi, il giovane uomo si fida degli insegnamenti di maestri, guru, adulti e anziani in genere, perché più esperti e competenti nella sopravvivenza alle avversità della vita: questi raccontavano storie di Dei e catastrofi, guerre tra animali e uomini, usi e costumi di ogni genere con il fine di preparare i giovani alle situazioni peggiori che la vita ti poteva presentare. Con il tempo, il continuo avvalorarsi delle storie raccontate hanno confermato nell’uomo, consciamente o meno, la veridicità delle stesse, cominciando un percorso di credenza subconscia a fenomeni ripetitivi: l’uomo ha imparato a credere che ogni giorno il sole tramonta e sorge incontestabilmente.
Questo processo di fiducia nella verità confermata è poi alla base delle scienze dal suo principio cartesiano, e poi rivoluzionato nei termini da Popper con il principio di falsificabilità: nessun numero di esperimenti può dimostrare il vero, ma uno solo può confutarlo. L’uomo ha così passato da credere ciecamente al fatto che il sole sorge e tramonta ogni giorno (che è di per sé vero, ma non ancora dimostrato, quindi appartenente alla sfera delle credenze dogmatiche), al dimostrare la sfericità della Terra, la rotazione dei pianeti e la loro rivoluzione. Sino a che i moti del sole nel cielo non furono spiegati, imperatori (e stregoni) hanno sfruttato l’ignoranza dei sudditi (o credenti) minacciando di fermare il sole a proprio piacimento, o a discrezione del Dio (o dei) in forza. Oggi, nonostante i Terrapiattisti e qualche estremista religioso, nessuno si sognerebbe di utilizzare i moti celesti come leva per minacciare o spaventare qualcun altro.
La perdita di fiducia nei vari campi, come nella moralità (cosa è bene, cosa è male?), nella giustizia (cosa è giusto, cosa è sbagliato?) o nella scienza (cosa è vero, cosa è falso?), è quindi un male gravissimo, regressista, che porta l’umanità a prima della tradizione orale, e quindi alla sua accezione animale: mi fido solo di ciò che vivo in prima persona, conosco unicamente ciò che vedo, sento o gusto, in un grande individualismo animale che niente ha a che vedere con l’uomo moderno, scientifico e razionale sviluppatosi negli ultimi 400 anni. Come dice Harari, l’uomo è individualmente inferiore a uno scimpanzé (ad esempio in termini di sopravvivenza allo stato brado); contemporaneamente però, se dovesse esserci una guerra, o una sfida, tra 1000 scimpanzé e 1000 uomini, il risultato sarebbe scontato.
Il problema non è la perdita dei valori tradizionali, perché a questi se ne succedono di nuovi. La questione non è l’alterazione della moralità, che è anch’essa relativa a spazio e tempo, e da sempre soggetta a rivoluzioni. Il dramma sta nel fatto che il disegno di declino odierno ci suggerisce un futuro di miscredenze scientifiche e di dogmatismi politici, in cui chi confuta è nemico dell’opinione pubblica; in cui chi si esprime con ragione ha la stessa valenza di chi opina a sentimento. Quando la pancia domina la testa, l’uomo diventa lupo e sbrana il branco.
La meritocrazia, intesa come statica vittoria dei meritevoli, invece di dinamica successione di meriti diversi, non è la soluzione a tale regressione. Vedo solo nel metodo scientifico, applicato a tutti i campi, la soluzione a tale irragionevolezza: solo con la forza della razionalità, solo grazie all’indipendenza della confutazione scientifica, solo tramite la rigorosità strutturale del metodo scientifico è possibile fermare questa degenerazione. Il perché è da trovarsi in una caratteristica intrinseca della Scienza post-popperiana: la verità non è dimostrabile, ma le menzogne sì. Il problema dell’uomo come individuo è che non vive abbastanza per verificare menzogne storiche, politiche e ideologiche che gli vengono propinate dalle classi dirigenti: l’unica sua salvezza, in quanto uomo, è di fidarsi di altri uomini che, prima di lui, o in altri posti sulla Terra, hanno studiato gli stessi fatti e ne hanno dato simili spiegazioni.
La fiducia è quindi il primo problema di oggi, e l’unica soluzione per un domani.