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Quante volte abbiamo assistito ad un dibattito con questa domanda, e alla fine non siamo comunque riusciti a formulare una risposta? Beh, non c’è da stupirsi: del resto, in Italia, le discussioni finiscono sempre per essere litigi, e gli esperti si trasformano troppo spesso in tifosi.
Proverò quindi a fare un ragionamento completo, ma sicuramente non esaustivo, sul tema TAV, che prescinda (per quanto possibile) da ideologie o prese di posizione a priori.
L’argomento va snocciolato secondo i diversi temi che questi tocca: l’impatto ambientale, la crescita economica, l’assetto strategico, la sua funzione sociale. Difficilmente, quando si ragiona di grandi opere, si può accantonare anche solo uno di questi aspetti.
Cominciando con un breve excursus storico, proverò a sottolineare le criticità dello sviluppo del progetto che hanno portato a un siffatto ritardo dell’inizio dei lavori. Checché se ne parli dai primi anni ’90, il progetto è stato ufficialmente depositato grazie ad un accordo di partenariato tra Francia, Italia e UE nel 2001, nell’ambito del maxi-programma TEN-T, dedito a rinforzare le infrastrutture interne all’Unione Europea e a facilitare la connessione tra gli estremi del continente.
Source: http://ec.europa.eu/ten/transport/maps/doc/axes/pp06.pdf
La tratta Torino-Lione, ufficialmente chiamata Asse Prioritario 6 e in precedenza Priorità 5 (buffo che una priorità si procrastini tanto, vero?), è parte di una più lunga tratta che dalla transalpina Lione, passando per Torino, Trieste, Lubiana e Budapest, arriva sino al confine ungherese con l’Ucraina. Ciò, come prevedibile, crea scontenti al di là del confine orientale, in quanto si tenta di avvicinarsi “pericolosamente” all’Ucraina, quando le trattative per la sua entrata nell’UE non erano ancora cominciate (e non si prevedeva un simile shock interno dovuto al naufragio dell’annessione dell’Ucraina all’UE).
Sfatiamo subito un mito: non è vero che la TAV serve ai Torinesi per andare più veloce a Lione. Innanzitutto, la nuova linea non è destinata a passeggeri: come vedremo più avanti, questi non è un particolare da poco.
Parlando di merci, non è possibile pensare che un’opera tanto grande non crei benefici economici (in gergo tecnico spillovers) a tutte le aree circostanti: un esempio dalla nostra Genova è rappresentato dalla possibilità di allacciare il famoso Terzo Valico a questa nuova linea per favorire lo scarico e scambio di merci dal porto non solo alla pianura padana ma persino oltralpe. Vi ricordo che, date le nostre infrastrutture obsolete e innumerevoli altre lacune, il porto di Rotterdam ha un’area di influenza che spazia su tutto il territorio Francese, Svizzero, Tedesco e persino Italiano, siccome è meglio collegato al continente e possiede una capacità di smistamento delle merci altamente superiore a quella genovese.
Source: www.ilsole24ore.com/
Contemporaneamente, alcune criticità riguardo l’efficacia dell’opera, il suo effettivo impatto economico e le troppo ottimiste previsioni di crescita del traffico hanno sollevato dubbi riguardo la funzionalità nell’opera e alimentato i venti contrari alla sua realizzazione.
Nei fatti, le previsioni di crescita del traffico di mezzi pesanti lungo i trafori esistenti del Frejus e Monte Bianco sono state assolutamente fallaci. Il traffico ferroviario sull’intero arco alpino occidentale è sceso dai 50,8 mln/tonn del 2001 a 38,1 mln/tonn del 2009 (-25% in 9 anni), per poi risalire a 42,4 nel 2016 (complessivo -16,5% in 15 anni). Specificatamente per il Frejus, il traffico ammontava a 11 mln/tonn nel 1997 e precipitava ai 2,9 del 2016 (-73,6% in 19 anni).
Source: Wikipedia
C’è un’altra questione macroeconomica da considerare: per quanto il traffico in Europa diminuirà, i costi di trasporto aumenteranno. Questi costi sono in stragrande maggioranza pagati dagli Stati Membri coinvolti, quindi Francia ed Italia, e solo parzialmente dall’UE, pesando così sul debito pubblico italiano, già abbastanza elevato di suo. Come riportato da “Green TEN-T”, il sito-web del gruppo parlamentare dei Verdi Europei dedicato al progetto TEN-T (vi prego di non pensare agli ambientalisti europei come a quelli nostrani: non ostacolano ogni opera, soprattutto se questa aiuterà lo scambio ferroviario invece di quello stradale, ma piuttosto producono studi critici sull’impatto dell’opera):
“Economic concerns are another problem. As traffic declines in the future, the cost of transport will increase. The Milano-Salerno high-speed train line is the best negative example of this. Even the high ticket prices of this line are not enough to pay back the long-term investment and the daily operational costs. Investment costs are mainly paid by the Member States, and only partly by the EU. The high costs would lead Italy to contract new debts; and it already has one of the highest debt to GDP ratios in Europe”
Migliorare le infrastrutture per garantire una maggiore competitività del tessuto commerciale italiano è sicuramente un punto a favore del TAV. Ogni ammodernamento rappresenta un miglioramento in termini meramente economici e di attrattività, nonostante le criticità sulle previsioni di aumento di traffico e la grande spesa pubblica necessaria. Ma a che costo ambientale? Qual è il valore aggiunto che quest’opera garantisce alle popolazioni locali?
Parlando dell’ambiente, molto si è starnazzato e poco si è capito. È evidente che perforare una montagna per 57km con un tunnel ferroviario ad alta velocità è sicuramente un’opera di elevato impatto ambientale. C’è da aggiungere che le valli in cui esso sbuca sono già state ampiamente usurpate da opere di messa in sicurezza, collegamenti stradali e ferroviari già esistenti.
Al fine di valutare la regolarità dell’opera, sono state fatte le opportune valutazioni di impatto ambientale (VIA) e valutazione dell’impatto sulla salute (VIS). Specificatamente per la galleria esplorativa Chiomonte sono state svolte 62mila rilevazioni eseguite da TELT sotto la supervisione di ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), in cui sono stati monitorati 135 parametri attraverso 40 centraline poste ad un raggio di 15 km dal cantiere. Sono state misurate polveri, radiazioni, acque, rumore, vibrazioni e altre componenti biologiche e in nessuno caso sono emerse criticità di rilievo.
Dagli studi geologici, però, emerge che un deposito di rocce amiantifere è presente a circa 400 m di profondità all’imbocco del tunnel, ragione per cui è prevista una modalità di lavoro in ambienti chiusi e opportunamente controllata.
Veniamo al nodo cruciale: se l’impatto economico è minimo, ma comunque vantaggioso, e se quello ambientale rientra nei parametri normativi di tutela della salute, perché essere contro a tale opera?
Beh, la risposta è tanto banale quanto complessa: la politica non ha rassicurato le preoccupazioni delle popolazioni locali, spaventate dalla minaccia di un possibile giacimento di amianto nella montagna, e non ha assicurato un dialogo con i rappresentanti locali che chiarisse i dubbi legati alla realizzazione, magari trattando per qualche ritorno economico, ambientale o sociale maggiore per le aree direttamente interessate.
La tensione che si è creata non è nata dopo la proclamazione del progetto, né tantomeno dopo il suo finanziamento. Sino al 2003, anno in cui l’azienda LTF (Lyon-Torino Ferroviarie) presentò il progetto preliminare di un tunnel geognostico a Venaus, le popolazioni locali non sembravano particolarmente indispettite. Una volta nota la locazione del tunnel, conosciuta dai residenti come zona ad alta concentrazione di amianto, e partito il cantiere sotto la supervisione del governo Berlusconi, gli abitanti si unirono e nacque quello che nel 2005 divenne ufficialmente il movimento NO TAV. Una manifestazione di 30mila abitanti irrompe nel cantiere di Venaus e lo smantella, costringendo il governo a sospendere il proseguimento dei lavori.
Source: Wikipedia
La mancata realizzazione dell’opera non si deve quindi a problemi economici o ambientali, per quanto reali ed esistenti, ma principalmente ad una mancata comunicazione tra i finanziatori dell’opera (governo Italiano, Francese e Commissione Europea) e la popolazione residente.
Gli accorgimenti successivi, atti a rimediare l’errore fatale di imporre senza ascoltare, sono stati fallimentari: l’Osservatorio istituito da Prodi nel 2006 non ha messo al centro le volontà della popolazione né tantomeno ha aperto un vero dialogo con i sindaci rappresentanti delle comunità locali. Nuovamente, si è provato in maniera centralistica ed elitaria ad istituire commissioni per verifiche ambientali, di salute e sicurezza che miravano a provare scientificamente l’attuabilità dell’opera senza però avere la capacità di comunicarla al movimento di protesta, oramai infiammato e sul piede di guerra.
Fatto sta che negli anni successivi ricominciano le trattative tra Italia, Francia ed UE per la realizzazione dell’opera, escludendo costantemente gli interessi della popolazione residente. Nel 2011 ricominciano i lavori, che a stento continuano tra piccoli sabotaggi e talvolta scioperi.
Politicamente parlando, è inutile persino la famigerata analisi costi-benefici proposta dal Movimento 5 Stelle. Siccome si riduce ad un fatto meramente tecnico la riuscita di un’opera, si snatura la vera essenza della politica: l’arte di prendere delle decisioni. Concordo che troppo spesso in Italia queste decisioni si basano solo sulle volontà dei pochi e dei potenti, che siano essi lobby o politici in conflitto d’interessi, ma non è possibile che una forza di governo non si sforzi di ascoltare le richieste delle autorità locali e non intavoli una trattativa.
Vorrei spiegare meglio quest’ultimo concetto: non è attraverso referendum locali, né tantomeno nazionali, che si deve decidere la realizzazione di un’opera pubblica: per quanto pagata dal pubblico, non deve essere decisa dal pubblico. Questo è, credo, il concetto base della democrazia rappresentativa, in cui eleggiamo gente che deve decidere per il nostro bene. Inoltre, strumenti come l’analisi costi-benefici o le valutazioni di impatto ambientale sono obbligatori nonché fondamentali nella fase di progettazione.
Quello che la politica deve fare è semplicemente mediare gli interessi di tutti: delle imprese che costruiranno l’opera, di quelle che la sfrutteranno, delle organizzazioni per la protezione ambientale e persino delle comunità locali. Tutti devono sentirsi rappresentati alla stessa maniera, senza esclusione, senza giochi di potere economico: in democrazia, la nostra opinione vale come tutte le altre, e deve potere come tutte le altre.
Le imposizioni creano tensioni, e le tensioni rallentamenti o ribellioni: una politica lungimirante, che vuole la realizzazione di un asset strategico per il proprio paese, deve essere in grado di coinvolgere, convincere e collaborare con chiunque ne abbia diritto.
Spero di esser stato, durante l’articolo, il più obbiettivo possibile: adesso vi dico come la penso io, e siete liberi di saltare quest’ultima parte.
Io credo che il processo con cui si è creata una tale tensione sociale vada fermato immediatamente. Non penso che in un paese democratico lo Stato possa decidere in maniera tanto autoritaria sul diritto paesaggistico, ambientale e di salute dei cittadini.
Questo può essere fatto in maniera drastica, con una chiusura immediata dei cantieri senza rinvii, o con una totale ritrattazione del progetto che coinvolga tutte le parti civili in causa: è necessario organizzare una riunione di portatori d’interesse che includa i sindaci delle comunità locali, i realizzatori dell’opera, gli esponenti del governo e altre parti chiamate in causa.
Quello che si prospetta è uno scenario opposto al mio, forse troppo utopistico perché troppo “studiato”: i lavori finiranno senza modifiche, tra complicazioni varie, e non se ne discuterà più dal giorno dopo l’inaugurazione.